Che abbiamo figli o no, gli ideali di maternità plasmano la nostra identità di donne, la nostra vita economica, politica e sociale, le nostre emozioni.
(Soraya Chemaly, La rabbia ti fa bella - titolo originale: Rage becomes her: The Power of Women's Anger)
L'estate scorsa, mentre ero in spiaggia, ho notato un gruppetto di ragazze adolescenti sedute sugli scogli, impegnate a farsi dei selfie. C'era freschezza nei movimenti e nelle parole di queste ragazze, erano gioiose.
Poi ho ascoltato una conversazione sul bagnasciuga tra due donne e mi sono sentita a disagio. Una delle due ha detto: vediamo se avranno ancora il tempo di farsi le foto quando diventeranno mamme!
La mia testa si è accartocciata e poi è esplosa, l'abitudine di dividere le donne in madri e madri in divenire è talmente radicata che tutte dobbiamo farci i conti, anche chi non direbbe mai una frase del genere.
Esiste una sorta di censura che si abbatte sui dialoghi tra madri e non madri, anche all'interno della bolla femminista che abito quotidianamente. Spesso ho avuto paura di essere fraintesa, in alcuni momenti della maternità mi sono sentita accolta e compresa da amiche che non avevano vissuto le mie stesse esperienze, sentivo che avevo bisogno di quel tipo di sguardo. Liberarci dal cartello lampeggiante con la parola Madre? che ci hanno attaccato dietro la schiena quando ancora frequentavamo la materna, non è facile. L'unica cosa che possiamo fare è parlarne, rendere tangibili questi pensieri. Vorrei che la gioia spontanea delle ragazze non venisse guardata come un sentimento in scadenza e, al tempo stesso, vorrei abbattere la scritta che incombe sul portone d'ingresso della maternità: benvenuta nell'era della privazione.
Ecco perché ho deciso di confrontarmi con
, donna di trent'anni (10 meno di me tondi tondi!) che ho conosciuto tramite un progetto creativo ideato da Valentina Aversano e con cui mi piace molto chiacchierare.Angela è copywriter e UX writer e scrive una newsletter di cui sono fan che si chiama Invidiosa. A proposito, mi sono innamorata di un suo pezzo in cui costruisce un dialogo immaginario con sua madre e lo fa in un modo lucido e onesto che coinvolge, ve ne lascio un piccolo estratto:
A trent’anni, lei aveva quasi un anno di matrimonio alle spalle. Io non penso nemmeno a metterlo in prospettiva, un matrimonio. Lei aveva avuto una gravidanza, cosa che io sono abbastanza sicura di non volere. Viveva in una casa “sua”, che aveva arredato con gusto e pochissima accortezza per la quantità di danni che sanno fare dei bambini. Io vivo in affitto da 11 anni e ho comprato l’altro ieri la mia prima pianta.
Cara Angela, hai amiche che appartengono a generazioni diverse dalla tua? Cosa ne pensi dell’amicizia femminile intergenerazionale, può fornirci strumenti in più per conoscere noi stesse?
«Ciao Serena, intanto grazie per avermi invitata nella rubrica Taglia e cuci di “Una figlia per amica”, che è uno dei miei spazi preferiti su Substack, non mi stancherò mai di dirlo. E sono davvero tanto felice di averti conosciuta - grazie Valentina! -, perché incrociare persone con le quali senti un’affinità fuori dalla tua bolla è davvero difficile. Per dire, molte mie amiche sono state o sono colleghe, ed è così che sono riuscita a conoscere donne di età diverse. Il sistema educativo italiano, se ci pensi, ti spinge naturalmente tra le braccia di coetanei e coetanee. Penso invece sia indispensabile confrontarsi con donne di generazioni diverse - che non siano in famiglia, perché sennò è troppo facile - per motivi che hanno a che fare con il cambiamento e con la ricchezza. Non è possibile notare il cambiamento se si sta sempre immersi “nella stessa acqua”, citando David Foster Wallace. Realizzare i progressi o gli scivoloni indietro è possibile perché una generazione noterà il cambiamento molto più di un’altra. Faccio un esempio pratico: una delle mie più care amiche, conosciuta come prima coinquilina della mia storia da fuorisede, ha qualche anno in più di me. Confrontarci sulle rispettive relazioni di coppia è stato, negli anni, il miglior punto di osservazione sulle luci e le ombre di quei rapporti. Una coetanea difficilmente avrebbe potuto notare certe cose. Quando parlo di ricchezza, invece, mi riferisco alla fonte inesauribile di esperienze che le donne sono pronte a condividere. Avere avuto delle colleghe, e amiche, più grandi al lavoro mi ha salvata in più occasioni: quel tocco, quella conoscenza di un mestiere, quella calma nelle situazioni più critiche puoi acquisirle solo col tempo. Sono davvero grata che abbiano scelto di condividere questi pezzi della loro vita con me».
Qual è il tuo rapporto con il desiderio? Secondo te si connette alla sfera del pentimento/rimorso, e magari anche all'invidia?
«Assolutamente sì, il desiderio tocca tutti e tre quei campi ed è forse la versione “positiva”. Non ho un buon rapporto col desiderio, perché sono terrorizzata - sì, davvero è una cosa che mi spaventa molto - dalle aspettative tradite. Non riesco a non desiderare, certo, ma sento sempre il bisogno di tenere basso il volume di certe speranze: non sono felice di questo ed è un lavoro che sto cercando di portare avanti con la mia psicologa. Devo riuscire a dare voce al desiderio, a mettere nero su bianco quelle cose che non definisco per paura che diventino troppo reali. Chiunque merita di poter desiderare e merita di avere desideri suoi, che non siano calati dall’alto. Ecco, forse questo è il modo migliore per riuscire a smorzare l’invidia ed evitare pentimento o rimorso: capire, con trasparenza, qual è il desiderio giusto per noi. Molta invidia nasce dal caricarci di desideri per procura, posizioni o vite a cui sentiamo di dover aspirare per conformità. Riconoscere, invece, che si ha diritto ai propri desideri è un grande atto di consapevolezza, proprio come spiega Carolina Capria nel TEDx che mi hai girato tu».
Il pezzo che hai scritto per la tua newsletter e che ho citato, mi è piaciuto tanto soprattutto perché racchiude un tema universale: tutte le figlie del mondo guardano le madri e... immaginano. Che rapporto hai con questo sguardo, e come è cambiato rispetto al modo di guardare che aveva Angela bambina?
«Uh mamma (letteralmente!). Allora, diciamo che lo sguardo verso mia madre è cambiato perché da bambina, fondamentalmente, non esisteva. Eravamo un tutt’uno, per me era impensabile non raccontarle qualsiasi cosa mi passasse per la testa o renderla parte integrante del mio mondo: sapeva tutto dei miei “cuttigghi” (in siciliano cuttigghiu o curtigghiu vuol dire cortile, e il suo significato è stato traslato a “gossip” per motivi che puoi immaginare), era la mia confidente preferita e spesso l’unica voce critica che riuscivo ad accettare. Crescendo, poi, ci siamo allontanate da questo rapporto: io mi sono trasferita e torno poco a Catania, perché è una dimensione che mi fa sentire poco indipendente (a proposito di donne, guida e patente). Cambiando prospettiva è anche cambiato lo sguardo, e ho notato degli angoli ciechi, scelte che non capisco e un modo buono di leggere il mondo che il mio cinismo non sopporta. Ma guardandola mi ci vedo riflessa per contrarietà: quello che io non sono, lei lo è stata o lo è. Quello che mi manca, lei ce l’ha. Non è una gara e non è un giudizio, ma le nostre differenze sono - a volte - la cosa più vicina che ho a un’identità. Anche nei difetti (più miei che suoi). Sono orgogliosa di mia madre e mi ci arrabbio: penso che lei ti direbbe la stessa cosa parlando di me».
Il nostro appuntamento con la rubrica Taglia e cuci torna a metà aprile, se ti va di chiacchierare con me, se hai una storia da raccontarmi e senti affinità con i temi che propongo, puoi scrivermi una mail.
Sono Serena Blasi, lavoro con le parole e con i ricordi. Studio e ricerco storie di figlie e di madri nella letteratura, nei film e nelle serie tv e creo percorsi di lettura per scoprire e tradurre le voci delle donne.
Una figlia per amica è una newsletter gratuita che richiede però molto lavoro, se ti va puoi offrirmi un cappuccino o ciò che più ti piace: il mio cuore ricco di citazioni ti sarà riconoscente.
Un grazie pieno di affetto ad Alice Fadda per le splendide illustrazioni.
La prima donna che conosciamo è nostra madre, eppure talvolta, specie quando siamo arrabbiate, la trattiamo con pochissima compassione. E su questo si modella il trattamento che riserveremo ad altre donne.
(Soraya Chemaly, La rabbia ti fa bella)
Che verità nei primi paragrafi! È tremendo ma è cosi, la maternità ed i cambiamenti che ne derivano sono uno spartiacque che nemmeno Mosè. Nonostante il mio sangue femminista mi ci sono trovata anche io a pensare o pronunciare quella frase: "fai un figlio poi ne riparliamo", non credo venga dalla cattiveria, ne dall'invidia, credo sinceramente che questo pensiero affondi i suoi artigli in una società ancora fortemente patriarcale per cui se dopo aver avuto un figlio non ti annulli per lui e per la famiglia, non sei una brava madre. E tutte noi, in fondo, vogliamo esserlo.
Se c’è una cosa bella che mi è successa nell’unico gruppo creativo che io abbia mai frequentato, é stata poter parlare con donne che sono madri ma non giudicano quelle che non hanno figli, tipo me.
Dovrebbe essere fuorilegge essere considerate “brave donne” oppure no partendo dai figli che abbiamo, ma purtroppo succede spesso.
Grazie ragazze, puntata bellissima ✨