Forse un giorno tornerò a ondeggiare, dimenticando che la bambina mi guarda sempre, perché i figli ti guardano anche quando non ci sono, ti guardano nell’intimità e ti leggono i pensieri, come prima credevo facessero solo i morti.
(Nadia Terranova, Quello che so di te)
È da un po’ che non scrivo, in questo periodo di cambiamenti e di nuovi inizi, fatico a tenere insieme tutti i pezzi. E anche se so che la scrittura è la mia principale fonte energetica e mi protegge dal pozzo, in alcuni momenti faccio di tutto per tenerla lontana. Non lasciarla da parte, mi ha detto un’amica nuova e le sue parole hanno fatto breccia come spesso accade quando le persone genuine si affacciano alla nostra vita e la magia di un’amicizia che nasce si compie indossando gli abiti leggeri della fiducia. Quando desidero scrivere ma non voglio cedere, arrivo ad inventarmi di tutto. C’è sempre qualcosa che arriva prima: una lavatrice che mi aspetta, della polvere da togliere, noiose pagine da studiare per un concorso, la spesa lontano dove ci sono più offerte, la spesa vicino per le cose di tutti i giorni, passi da fare per non infiacchirmi, esercizi per la schiena per non ingobbirmi, esercizi per smaltire, per tenermi in forma, creme da stendere sul viso per ingannare il processo di invecchiamento della pelle, oggetti da vendere per fare spazio, spazio, spazio, ho sempre bisogno di spazio, uno spazio che dalla maternità in poi raramente sono riuscita a godermi davvero in solitudine.
Poi però non ce la faccio più (e quanto è utile dirlo ad alta voce), stufa di contrarmi e rimpicciolirmi, apro un libro e dimentico il resto, non un libro qualunque. Se c’è una cosa di cui sono certa è che i libri sanno sempre farsi trovare al momento giusto. Non mi chiudo, mi apro e loro arrivano.
I libri che mi hanno salvata e costretta a mettermi seduta, in questa occasione sono stati due: La più bella del reame, a cura di Maria Tatar di cui mi ha fatto dono
e Quello che so di te, l’ultimo romanzo ipnotico di Nadia Terranova. Queste pagine hanno cominciato a dialogare nella mia mente; Maria Tatar esplora il mito della fiaba Biancaneve, mostrandoci la sua energia, sopravvissuta a qualsiasi altro racconto degli antichi.Se noi continuiamo a ripetere e a tramandare queste storie è in primo luogo perché esse colpiscono nel segno; e ci costringono a metterci seduti, ad aprire le orecchie e fare attenzione. Nella vita reale, ogni famiglia infelice può esserlo a modo suo, ma nelle fiabe le famiglie infelici si somigliano tutte quante.
(Maria Tatar, La più bella del reame)
Nadia Terranova nel suo ultimo romanzo costruisce un intenso dialogo matrilineare e non ha paura di mostrarci le luci e le ombre di cui il volto della maternità è cosparso; un volto immenso, dai mille occhi, quanti sono quelli delle donne che ci hanno precedute e che verranno; le nostre nipoti, di sangue o no.
Venera doveva essere rimasta impigliata nello strato irregolare di realtà delle eredità familiari che proiettiamo nelle visioni o nelle stanze buie; di lei avevo carpito racconti smozzicati, ma la sentivo vagare per casa come uno spettro incastrato che non trova più la strada per tornare indietro, si era incarnata in un bisbiglio, in una parola lasciata cadere e subito messa al riparo.
(Nadia Terranova, Quello che so di te)
È grazie a queste letture che ho ricominciato a scrivere, ma soprattutto è grazie a queste letture che, come dice Maria Tatar con parole incantatrici, ho costretto me stessa a stare seduta e ripartire dall’unica posizione possibile: me stessa. E l’ho fatto.
Il ricordo
Le madri guardano le figlie e le figlie guardano le madri, questa verità ci segue come un’ombra; anche se partiamo, chiudiamo porte, facciamo costruire studi, rimarchiamo differenze, non si scappa da quel modo di guardare, conviene abbracciarlo. Lo sguardo delle bambine però è uno sguardo speciale, impetuoso e divinatorio. Loro riescono a vedere soprattutto ciò che cerchiamo di nascondere. Quando ero bambina guardavo il volto di mia madre con insistenza, la scrutavo e cercavo di decifrare le sue espressioni. Sarà felice? Arrabbiata, triste? Cosa mi sta nascondendo? Se dovessi tracciare una linea per ripercorrere la storia delle mie ossessioni, la faccia di mia madre sarebbe l’inizio.
Gli occhi di mia figlia me li sento addosso con la stessa intensità di cui era portatrice la me bambina, la riconosco e tremo ogni volta che chiede sei arrabbiata con me? Sei felice? Mi sembra più libera di quanto fossi io da bambina che non avrei mai posto una domanda così diretta a mia madre. Così netta, senza scampo. Ogni volta che mia figlia domanda, tremo e cerco di resistere alla tentazione di cadere. Al tempo stesso prego affinché rimanga così libera per sempre, libera dal timore di ferirmi, di superarmi, persino di schiacciarmi.
La mia bambina sta imparando a leggere e le sue domande non potranno che moltiplicarsi; entra nel mio studio e prova a leggere le frasi che ho appeso sulla bacheca, quelle che voglio sempre lì con me a vigilare sulla mia vita. Ci sarà lei a leggermi ancora più a fondo, non possiamo sottrarci agli occhi di una figlia che brama il suo mondo.
Mia madre disegnava spesso quando ero bambina, disegnava volti di donne, proprio come faceva mia nonna. A volte era una pratica distratta, un bozzetto lasciato lì per caso tra le pagine della settimana enigmistica, mentre il sugo era in preparazione e la tv rimaneva accesa a volume basso. In altre occasioni si concedeva la serietà che avrebbe meritato e comprava pastelli buoni, album da disegno professionali. Io non ho interrotto la linea materna, ma invece di disegnare, ho dedicato le mie energie alla lettura e alla scrittura. E più leggo, più sono affamata, non voglio leggere altro, non esiste nulla di più interessante delle parole, dei pensieri delle donne. Siamo questo in fondo, una somma imperfetta delle nostre ossessioni, meglio non tradirle le ossessioni perché i fantasmi sanno essere vendicativi.
Mia madre disegnava volti di donne e lungo l’arco di quei momenti creativi, mi sembrava completa, non avevo nulla da domandarle. Poi qualcosa la interrompeva e la riportava al mondo terreno, la cena da preparare, una richiesta di noi figli, una telefonata. Anche mia nonna ha sempre disegnato volti di donne, li conosco tutti e ne sono gelosa, li appendo, faccio in modo che le persone ammirino il suo talento, perché non vada perduto. Mia madre e mia nonna hanno disegnato volti di donne, in tempi diversi, chiuse tra le pareti di stanze simili. Socchiudo gli occhi e cerco di vedere mia madre bambina che osserva mia nonna disegnare; forse questo è stato il loro modo per ricercarsi anche dopo il tempo terreno, per completarsi, per sottolineare una storia comune, invece che urlarsi addosso la propria diversità, come fanno da sempre le donne della mia famiglia. Riusciamo ad amarci solo nelle differenze, il campo minato delle nostre similitudini deve restare inesplorato. E ora che ci penso, quei disegni devono aver rappresentato anche un mezzo per dialogare con le altre, per sentirsi simili alle altre donne. Non hanno mai avuto tante amiche, poche che abbiano resistito alle ferite della giovinezza, hanno fatto di quei volti belli e malinconici - mai felici - i loro personali amuleti femminili.
Tutte le donne del mondo appartengono alla stessa famiglia
(Carolina Capria, Maestre)
La scintilla
La maternità è un eterno gioco di sovrapposizioni e tutto questo ricamare intorno agli sguardi che si propagano nel tempo tra madri e figlie, mi ha fatto venire in mente una cosa che mi capitava da bambina quando avevo la febbre alta, oppure quando ubriaca di sonno ero costretta ad abbandonare il tepore del letto per andare in bagno. Guardavo il lungo corridoio della mia casa d’infanzia attraverso le sottili fessure scure dei miei occhi addormentati, sentivo il russare dei miei genitori e poi la vedevo. Era mia nonna paterna, morta quando io avevo poco più di un anno, oppure una prozia mai conosciuta di cui mio padre mi aveva parlato a lungo. Non era una visione vera e propria, piuttosto una percezione, pre-sentivo la loro presenza, intuivo la loro essenza. Cercavo di non aver paura, ma smettevo sempre di guardare. Ora so che quello sguardo è il nostro potere, la nostra salvezza. Noi donne ci manteniamo vive da sempre, attraverso quello sguardo.
Sono Serena Blasi, lavoro con le parole e con i ricordi. Studio e ricerco storie di figlie e di madri nella letteratura, nei film e nelle serie tv e creo percorsi di lettura per scoprire e tradurre le voci delle donne.
Una figlia per amica è una newsletter gratuita che richiede però molto lavoro, se ti va puoi offrirmi un cappuccino o ciò che più ti piace: il mio cuore ricco di citazioni ti sarà riconoscente.
Un grazie pieno di affetto ad Alice Fadda per le splendide illustrazioni.
Una sera mi guardai allo specchio. Avevo quarantasette anni, ne avrei compiuti quarantotto tra quattro mesi, ma vidi che una magia mi aveva cancellato parecchi anni di dosso. Non so se mi fece piacere, ma sicuramente mi sorprese.
(Elena Ferrante, La figlia oscura)
Sei una scrittrice. Non solo perché scrivi, ma perché hai e dai uno sguardo sul mondo che noi che ti leggiamo possiamo indossare, e per tuo tramite capire
Sono una mamma che ha disegnato e dipinto mille volti di donne. Mi hai catturata con il tuo racconto. Mia figlia mi scruta e disegna, disegna in continuazione. Mentre osserva il mio gesto, desidera già superarlo. Mi chiedo: può ciò che unisce, poter anche dividere? Intanto l’ho iscritta a pianoforte. La musica sarà solo sua 💗 grazie Serena!