Quando penso ai miei genitori prima che diventassero i miei genitori, dopo aver preso la decisione ma prima che il matrimonio l'avrebbe resa – a quel tempo andava così – irrevocabile, mi sembrano non solo commoventi e fragili, splendidamente ingenui, ma anche più belli di quanto siano mai stati in seguito (…) immaginarlo mi piace, come credo succeda a tutti, per non dover supporre di essere nati da un amore da sempre avaro, o da un'iniziativa da sempre moderatamente convinta. Allora penso che quando arrivarono a scegliersi il posto in cui avrebbero trascorso il resto della vita, sul fiume Maitland (…) viaggiassero a bordo di un'auto che filava bene su strade asciutte, che fosse un luminoso giorno di primavera e che anche loro fossero belli, gentili, sani e pieni di fiducia nel domani.
(Alice Munro, La vista da Castle Rock)Quando non ero nata, dov’ero?
E.
Arriva un momento in cui le domande dell’infanzia abbracciano la nascita: sono domande prive di giudizio, misteriose e spirituali, io cerco di accoglierle con interesse e meraviglia.
La mia bambina da qualche tempo vuol sapere dove si trovava prima di nascere, perché non c'era e poi sì. E a queste domande se ne aggiungono altre più fisiche sul corpo in gravidanza. Quando si è bambine non c'è dolore e preoccupazione attorno al pensiero della nascita, c’è l’ombra invisibile del miracolo e la cura. I bambolotti diventano bambini da coprire, ninnare, dondolare, portare per strada per la prima volta in luoghi a loro sconosciuti: supermercati, parchi gioco, automobili. Per la mia bambina la maternità è un gioco, come è giusto che sia, e quando la osservo giocare cerco di ricordarmi che c'è stato un tempo in cui lo era anche per me, non “solo un gioco” formula che sembra sminuire l'importanza di giocare alla maternità, ma pienamente gioco.
Durante le mie gravidanze ho sentito la necessità di ripercorrere quel filo e per prima cosa ho cercato fotografie di mia madre incinta. Dov’ero, prima di nascere? Chissà se anche io le ho posto la stessa domanda, probabilmente sì.
Oggi non è semplice parlare di parto soprattutto se apparteniamo ad una bolla social, mi è capitato molte volte di sentirmi giudicata da chi crede solamente nella scienza e lo rivendica fieramente dichiarando che questo è l'unico modo per avere gravidanze sicure, parti sicuri, da chi preferisce affidarsi al sentire e rivendica il proprio diritto di riappropriarsi del parto considerando nemica un'eccessiva medicalizzazione. È lo stesso desiderio di maternità ad essere giudicato: diventare madri è diventato un atto di destra oppure una scelta incosciente e sicuramente egoista.
Prendo posizione, negli anni sempre di più, quando intercetto un'ingiustizia – non a caso mio padre mi chiamava la Pasionaria – e ho sempre sentito che non dovremmo chiedere alle madri di etichettarsi, di sedersi in un angolo del dibattito sulla maternità senza alzarsi mai, cedere il posto o confondersi con le altre correnti.
In me scorrono da sempre correnti miste fatte di scienza, spiritualità e magia, mi ci è voluto tempo – e due esperienze di maternità diverse tra loro – per capire che queste correnti potevo lasciarle scorrere, che non dovevo arginarne nessuna.
Un libro che ha scatenato ribellioni
Avevo circa vent'anni quando nel mio percorso universitario ho incontrato Isadora Duncan, la Divina Isadora, la sua storia ha scavato dentro di me in modo carsico. In un’epoca in cui le ballerine venivano considerate solo sorrisi e gambe svolazzanti per compiacere lo sguardo maschile, Isadora Duncan è divenuta coreografa, promotrice di sé stessa e artista straordinaria.
La mia vita, autobiografia di una grande pioniera della danza moderna è un libro pieno di dolore, ricchezza e grazia e rimane per me un testo di riferimento. Le posizioni di Isadora Duncan – sull'arte, ma anche sulla maternità – sono visionarie, problematiche, dolorose e contraddittorie, insomma ricche di sfumature. Oggi che ritorno alle sue parole, penso che dovremmo riprenderci la libertà di danzare attorno alle nostre idee, senza innamorarci di una posizione a tal punto da rimanerne schiacciate.
Isadora Duncan fu una madre tenera e appassionata ma ebbe un'esperienza devastante perché i suoi figli si ammalarono e morirono ancora bambini. Non abbracciò mai le istanze femministe, ma parlò del dolore del parto con crudezza e autenticità, soprattutto per quei tempi (nacque nel 1877 a San Francisco e morì tragicamente nel 1927 a Nizza).
Dopo tutto, che cosa è l'arte se non una pallida immagine della gioia e del miracolo della vita?
Si può dire quello che si vuole dell'Inquisizione di Spagna, nessuna donna che ha avuto un figlio potrebbe temerla (…) è semplicemente assurdo che con la nostra scienza moderna il parto senza dolore non sia la regola (…) non mi parlate del movimento femminista o delle sufragette fin che le donne non avranno posto fine a questa inutile sofferenza e non avranno preteso che il parto, come tutte le altre operazioni, sia compiuto senza dolore.
(Isadora Duncan, La mia vita)
I dolori di Isadora Duncan mi sono rimasti incollati addosso, non avevo mai avuto modo, fino a quel momento, di parlare del dolore.
I miei parti non sono stati simili alla descrizione di Isadora Duncan, mi sono sentita forte, consapevole, pienamente al centro di me stessa. È difficile parlarne senza rischiare di essere considerata insensibile nei confronti di chi non ha un’esperienza positiva di parto, non ho risposte ma quel che so è che nessun tabù è mai stato dissolto occultando gioie e dolori personali.
Durante la mia seconda gravidanza vivevo a Torino, dove il parto in casa è regolamentato dalla Regione Piemonte. Nel privilegio di poterla seguire, ho scelto questa via e mentre partorivo ho scoperto molte cose. Ad esempio che l'acqua non è il mio elemento, avevamo noleggiato una piscina da parto, ma quando le mie ostetriche stavano finendo di riempirla, le mie contrazioni si sono fatte decise e definitive. E allora ho cominciato a circoscrivere il perimetro di casa, agile come non mi ero mai concessa di essere, forte come non mi ero mai vista, ho spostato un tavolo, un divano e ho partorito in piedi, perché la mia risorsa più grande è la forza nelle gambe e il mio elemento è il fuoco. Partorire in casa per me ha significato sentirmi sicura e desiderosa di scoprire me stessa, ne ho parlato solo con persone che mi hanno fatto sentire accolta e provo a farlo, anche se brevemente, qui nella mia newsletter, perché è uno spazio di libertà. Sento la necessità di tornare a quel personale-politico che fa la differenza, non mi interessa promuovere una scelta personale o criticare le scelte di altre donne. Come ha scritto Adrienne Rich nell’introduzione per il decimo anniversario per Nato di donna: A formarci sono l'esperienza, il caso, le stelle e il tempo, i nostri compromessi e ribellioni, e soprattutto l'ordine sociale attorno a noi.
Mi piace conoscere le vite delle altre donne perché è questo che siamo, un contagio di stelle, esperienze, ribellioni; rimanere ancorate a noi stesse non ci porterà da nessuna parte. Dentro di me i pensieri e gli sfoghi di Isadora Duncan coesistono con lo yoga in gravidanza e le visualizzazioni che io e il mio compagno di vita abbiamo utilizzato durante il parto, non sono un manifesto e non voglio esserlo, sono un innesto tra vita razionale e irrazionale.
La vita trova sempre il modo di stupirci. Non dobbiamo sprecare energie cercando di sanare le contraddizioni, possiamo abbracciarle.
Un esercizio memoir
Sono diventata zia per la prima volta nel 2008, al tempo non volevo saperne nulla di parto, preferivo rimanesse un evento misterioso e distante. Io volevo vedere lui, il neonato, il mio primo nipote.
Ricordo l'isola Tiberina ad agosto e il sole calante che la rendeva ancora più bella, ricordo il corridoio buio dell'ospedale, passi lenti e solitari, potevamo restare per qualche minuto. E poi eccolo, il corpo di un neonato per la prima volta davanti ai miei occhi, un neonato che poi avrebbe acquisito un nome, uno spirito, un carattere. Ricordo le gambe lunghe muoversi in coreografie scattanti e sonnolente al tempo stesso. Ricordo le atmosfere, le ore dell’attesa esplose in fotogrammi lenti e gioiosi.
Ricordi la prima volta che hai visto una bambina o un bambino appena nato? Dove ti trovavi? Cosa hai provato? Se ti va puoi raccontarmelo, ti leggo sempre con gioia.
Sono Serena Blasi, lavoro con le parole e con i ricordi. Studio e ricerco storie di figlie e di madri nella letteratura, nei film e nelle serie tv e creo percorsi di lettura per scoprire e tradurre le voci delle donne.
Una figlia per amica è una newsletter gratuita che richiede però molto lavoro, se ti va puoi offrirmi un cappuccino o ciò che più ti piace: il mio cuore ricco di citazioni ti sarà riconoscente.
Un grazie pieno di affetto ad Alice Fadda per le splendide illustrazioni.
Alla fine dell’Ifigenia, le vergini di Tauride danzano con gioia bacchica per celebrare la liberazione di Oreste. Sentivo le loro mani ardenti aggrapparsi alle mie, l’entusiasmo e lo slancio del loro corpo fluente a seconda che i giri divenivano più rapidi e più folli. Quando alla fine io cadevo in un parossismo di abbandono giocondo, vedevo le immagini delle Baccanti:
Finché esse cadono ebbre di gioia
Al suono dei flauti che sospirano,
Perseguendo sole il desiderio
Attraverso l’ombra dei boschi.
(Isadora Duncan, La mia vita)
Questa è una puntata che si aspettava da tempo, anche senza saperlo. Leggendola ne ho sentito proprio l'urgenza. La mia prima neonata è mia sorella, ed è sempre suo il primo battito di cuore ascoltato durante un'ecografia: ricordo tutto di quel suono che si espande nella stanza, violento e dolce insieme. E poi potrei farti un lungo elenco di neonati fino ad arrivare a quello di mia figlia Lila, ma mi fermo prima. Immagino che scrivere di questa porta socchiusa non sia stata facile: brava. E grazie.
Mi hai commossa, avvolta, abbracciata. Hai trovato parole delicate e inclusive, pur raccontando la tua esperienza personale. Viene sempre naturale, leggendoti, scavare dentro la propria vita e a volte arrivare fin dove cerchiamo di non spingerci mai.