Io ero piccola e a conti fatti la mia bambola sapeva più di me. Le parlavo, mi parlava (...) Indossava un vestitino blu che le aveva cucito mia madre in un raro momento felice, ed era bellissima. La bambola di Lila, invece, aveva un corpo di pezza gialliccia pieno di segatura, mi pareva brutta e lercia. Le due si spiavano, si soppesavano, erano pronte a scappare tra le nostre braccia se scoppiava un temporale, se c'erano i tuoni, se qualcuno più grande e più forte e coi denti aguzzi le voleva ghermire.
(Elena Ferrante, L'amica geniale)
Sono andata a vedere Barbie di Greta Gerwig da sola, ho scelto il Troisi che si trova nel cuore di Trastevere e proietta spettacoli anche al mattino. Ho preso l'autobus con la mia mise shocking pink portandomi addosso quella felicità mista ad ansia che si prova quando si sente di non dover mancare a un appuntamento.
Ho indossato l'anello di mia nonna che ha un rubino rosso e splende di una luce calda proveniente da un'altra epoca, mi entra perfettamente nonostante lei avesse mani molto più piccole delle mie, deve essere un incantesimo.
E poi, c'era il bricchetto di porcellana che era appartenuto a sua madre, quell'oggetto delicato e lucente come una conchiglia. Era stata Amy a tirarlo giù dalla credenza qualche mese prima e a proporre di usarlo tutte le sere. “Era di tua madre”, aveva detto, “e a te piace tanto”. Isabelle aveva detto va bene. Ma ora, all'improvviso, le sembrava pericoloso: una cosa tanto facile da rovesciare con una manica, o un braccio nudo, e frantumare in mille pezzi sul pavimento.
(Elizabeth Strout, Amy e Isabelle)
Proprio come Isabelle, mi sono sentita spesso sospesa tra il desiderio di proteggere questo oggetto delicato e lucente e la voglia di stringerlo costantemente tra le mani. L'anello è un talismano che racchiude la vita delle mie antenate e da quando lo indosso mi sembra di captare dettagli che da piccola non ero in grado di comprendere. L'anello di mia nonna si porta dentro il riposo dopo pranzo sulla sdraio in giardino e quel sollievo che provano le donne quando gli occhi sono finalmente socchiusi e ci si gode il silenzio, il sapore del caffè nella tazzina di vetro, la lentezza di gesti meticolosi utilizzati solo in cucina.
E tu che rapporto hai con gli oggetti appartenuti alle nonne? Li usi nel quotidiano o li custodisci in un posto sicuro? Hai mai la sensazione di doverli toccare, sentire sulla pelle? Se ti va di confidarmi qualcosa, mi trovi qui
Il ricordo
Sono molto piccola e salgo le scale che portano alla soffitta dei giochi di mia cugina F. Siamo nella casa di montagna, c’è odore di legna, lavanda e aria pulita che mai dimenticherò. Ma soprattutto c’è questa soffitta, silenziosa, segreta, difficile da raggiungere. Ci sono tanti giochi, ma io ho occhi solo per loro, le regine della mia infanzia: le Barbie.
Dopo aver visto il film, ho continuato a provare una sensazione che adesso definisco appartenenza, come se la porta della stanza dei giochi si fosse spalancata dando l’opportunità a noi tutte – bambine e donne, figlie e madri – di riconoscerci.
Quella sera sono entrata nella stanza di mia figlia e invece di leggere un libro come facciamo di solito, abbiamo giocato a Barbie. Mi sono sentita parte di una staffetta infinita nel gioco tra figlie, nonne, mamme. Le bambole rimandano sempre a qualcos'altro, ad un tempo altro, sono squarci che si allargano sul futuro e contemporaneamente spiano il passato.
Io stessa ora stavo giocando, una madre non è che una figlia che gioca
(Elena Ferrante, La figlia oscura)
Non si può parlare di bambole senza parlare di amicizia femminile ed è proprio attraverso le bambole che inizia l'avventura di Elena e Lila, protagoniste de L'amica geniale. Tiziana de Rogatis ha scritto un libro illuminante che si chiama Elena Ferrante. Parole chiave e fa venire una gran voglia di ricominciare la quadrilogia, l'autrice dedica un intero capitolo del suo saggio all'amicizia femminile come valore creativo. L'amicizia tra Elena e Lila, oltre a guidarle per tutta la vita, è l'evento centrale delle loro esistenze: questa definizione sfida lo stereotipo che da sempre accompagna le relazioni femminili. La ricerca delle bambole è la prima prova che le bambine affrontano insieme, ma il loro legame è definito da molte altre azioni simboliche; tra queste vi è anche la lettura di Piccole donne, romanzo geniale di Louisa May Alcott di cui non smetteremo mai di parlare.
Mentre progettavo la seconda puntata, ho rivisto Piccole donne di Greta Gerwig che ormai è la mia versione cinematografica preferita di questa storia universale.
C'è una scena del film che ha catturato la mia attenzione ed è quella in cui Jo, che ha dovuto rinunciare ai suoi splendidi capelli per guadagnare dei soldi e fare la sua parte, dopo aver mostrato infinito coraggio, piange disperata. La sorella minore Amy l'abbraccia e le chiede è per papà? E lei risponde, no è per i capelli.
Trovo significativa questa scena, ci dice che non dobbiamo rinunciare a pezzetti di noi e che nessuno può impedirci di essere ciò che siamo, in tutte le nostre contraddizioni. Quella sera, mentre mia figlia dava le voci alle sue Barbie e io le pettinavo, ho capito di aver cominciato a costruire storie proprio quando da bambina salivo le scale della soffitta dei giochi.
Dare la voce alle bambole, come fa mia figlia e come fanno tutte le bambine del mondo, è la prima istintiva strategia che mettiamo in atto per riconoscere la nostra voce. Nel racconto di Elena Ferrante La spiaggia di notte, è proprio una bambola a raccontare la sua storia in prima persona.
Mati è una bambina di cinque anni che parla moltissimo, specialmente con me. Io sono la sua bambola (…) Penso all'ultimo gioco che Mati ha fatto con me. Mi ha fatto saltare, mi ha fatto correre, mi ha fatto spaventare, mi ha fatto parlare e gridare, mi ha fatto ridere e anche piangere. Quando giochiamo, io chiacchiero moltissimo e tutte le cose mi rispondono.
(Elena Ferrante, La spiaggia di notte)
Con le gambe incrociate sul pavimento e la porta accostata o nascoste sotto il tavolo in cucina, rannicchiate in una tenda ricavata con i cuscini del divano o raggomitolate nel grande armadio dei cappotti, ovunque fossimo da bambine, tutte noi custodiamo nella mente un posto per giocare da raggiungere all'occorrenza; se chiudo gli occhi lo visualizzo ancora salendo le scale scricchiolanti della soffitta.
Lì ci saranno per sempre le nostre Barbie e io sono molto grata a Greta Gerwig per averci ricordato che quelle storie hanno valore e devono essere raccontate.
La scintilla
Una volta alla piccola ho detto che mi piacciono le bambine parigine perché sono sempre spettinate, un po' ribelli, come le loro mamme, e che per quanto io ami la cura delle donne bielorusse, mi affascina l'idea di rivendicare la propria intelligenza eliminando la spazzola. Da quel giorno, Nastia non si pettina praticamente più
(Anna Bardazzi, La felicità non va interrotta)
Mentre lavoravo a questo numero ho scoperto – un po' per caso, un po' per magia – il romanzo di Anna Bardazzi La felicità non va interrotta; è proprio una Barbie a sancire l'alleanza tra le due protagoniste di questo racconto che si sviluppa tenendo sempre al centro il legame tra le due donne. Anna Bardazzi è nata a Prato, laureata in Scienze Politiche con una tesi su Lukashenko, un master in lingue alla Sorbonne. Ricorda il mio nome è il suo podcast scritto in collaborazione con l’avvocata Roberta Sandri, legale specializzata in difesa delle donne. Questo progetto racconta storie di donne uccise perché donne, affinché possano essere ricordate come persone, e non come un numero.
Ecco cosa mi ha raccontato Anna a proposito del suo rapporto con le Barbie:
«Barbie è stata indubbiamente la mia migliore amica d’infanzia, il mio interesse totalizzante. Ero una bambina piuttosto solitaria e trascorrevo ore a giocare con le Barbie. Per questo Anna regala a Lena una Barbie: è il suo bene più prezioso, come lo era per me. Non mi interessava che fossero belle, alte, magre. Per me erano solo le personagge delle mie storie. Era grazie a loro se potevo sfogare la mia fantasia, Barbie non ero mai io, non mi sono mai identificata, loro erano ciò che io immaginavo. Ho giocato a Barbie fino ai 14 anni, quando avevo già un fidanzato (che ne aveva 19). Le mie Barbie inoltre erano queer perché dovevano giocare ogni ruolo: avevo un solo Ken che non poteva certo interpretare tutti i personaggi che si riteneva fossero maschili. Avevo poche Barbie ma ricordo bene un paio di Benetton, Barbie Gran Galà e Barbie Fiori di pesco. Mia mamma mi cuciva i vestiti perché comprarli costava troppo. Avevo la casa con l’ascensore, quella di cartone, e mia zia mi aveva regalato il camper per un Natale. Se ripenso a Barbie, ripenso ai momenti più felici della mia infanzia, lei era sempre con me a interpretare le mie storie. Ci sono rimasta malissimo quando una maestra ha detto a mia mamma che sarei diventata anoressica a causa di Barbie: non capivo assolutamente cosa volesse dire.
Da madre ho ovviamente comprato Barbie alle mie figlie: nessuna delle due ci ha mai giocato!»
Poi ho visto dalle foto di Instagram la bella chioma di Anna Bardazzi e le ho chiesto di parlarmi del rapporto con i suoi capelli:
«Sono riccia, riccissima. Chi ha i capelli veramente ricci sa che non si possono pettinare. Adesso da poco li porto corti ma per gran parte della mia vita li ho portati molto lunghi e ribelli, impossibili da pettinare. Le ricce si pettinano solo quando lavano i capelli. A differenza di molte altre ricce, sono arrivata presto all’accettazione dei miei capelli così come sono e dai vent’anni in poi li ho sempre portati sciolti, gonfi e indomabili, dedicando loro una cura a volte anche ossessiva. Perché i miei ricci sono parte della mia identità, rivendico da sempre il diritto a essere spettinata e fuori posto, ma a mio agio così.
Le mie figlie, che hanno i capelli lisci, sono nate e cresciute in Francia e forse per questo sono sempre state spettinate. Quando venivamo in Italia era una delle cose che mia madre ci faceva notare di più, a volte me lo dicevano anche in risposta alle storie su Instagram! Eppure a me piace tantissimo pettinare, fare trecce elaborate. A loro no, e va bene così!»
Ringrazio moltissimo Anna Bardazzi per la chiacchierata che ha impreziosito questo numero di Una figlia per amica. Vorrei che questo spazio somigliasse sempre più ad una polifonia che diffonde e amplifica la voce delle altre donne.
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Serena Blasi studia e ricerca storie di figlie e di madri nella letteratura, nei film e nelle serie tv e crea percorsi di lettura per scoprire e tradurre le voci delle donne.
Le bellissime illustrazioni sono di Alice Fadda.
ed era bello solo vedersi ogni tanto per sentire il suono folle del cervello dell’una echeggiare dentro il suono folle del cervello dell’altra
(Storia del nuovo cognome, Elena Ferrante)
Che bella l'intervista ad Anna Bardazzi. Mi ha colpito molto il suo rapporto con i capelli, con il pettinare, le differenze di opinioni sulla necessità o meno di tenere in ordine i capelli fra nonne, madri e figlie, che rivedo spesso nella vita mia (che ho tagliato la testa al toro portandoli corti praticamente da sempre) e delle persone attorno a me. Potrà sembrare un particolare sciocco, invece non lo è per niente.
È incredibile quello che ho ritrovato: quanto ho pianto, proprio come Jo, quando mia madre mi ha tagliato i capelli cortissimi (giustamente, visto che andavo in piscina ogni giorno, ne ho una valanga e sono ricci riccissimi)...ricordo ancora i singhiozzi disperati di quel giorno! E poi le mie Barbie: mi divertivo a tagliare i capelli corti a tutte quelle che avevo, forse sempre perché io non potevo avere quella chioma lunga, che tanto mi piaceva!
Da tanti anni ormai i miei capelli sono lunghissimi, forse anche troppo, e i ricci (quasi) domati dalla piastra ✨