in questa visita ho capito chiaramente, e per la prima volta, perché una madre è davvero importante (…) perché in un modo curioso, e forse misterioso ed etereo, sta in uno spazio vuoto. Si colloca tra l'ignoto e il noto.
(Maya Angelou, Lei che mi ha liberata)
Nella nostra società rientrare nel modello della buona madre richiede sacrifici continui, sei una cattiva madre se compri i surgelati, se scegli il cesareo o l'epidurale, se non lavori o se lavori troppo, se fai domande eccessive e non ti affidi all’istinto. La scuola per le buone madri è la distopia sulla maternità di Jessamine Chan (tradotto da Simona Vinci), mentre leggevo di queste madri detenute e costrette a redimersi prendendosi cura di una bambola-robot, ricordo di aver pensato che avremmo bisogno di un allarme in grado di riportarci alla normalità ogni volta che veniamo sottoposte agli standard abbaglianti (e impossibili) dell’essere madre.
Le domande dirette esercitano troppa pressione sui bambini piccoli, dicono le istruttrici. Una madre non dovrebbe fare domande, dovrebbe intuire. Dovrebbe sapere.
(Jessamine Chan, La scuola per le buone madri)
Per progettare una distopia non serve allontanarsi dalla realtà, anzi è necessario immergersi e sporcarsi nel quotidiano. In questa nostra società così crudele con le madri, leggere Maya Angelou è un atto rivoluzionario. Così come leggere Sibilla Aleramo ed Elena Ferrante.
In modi diversi queste scrittrici affrontano il tema del desiderio e dell'abbandono materno e non lo fanno in termini di eccezionalità ma immettendolo nella narrazione di una vita: non a caso il romanzo più conosciuto di Sibilla Aleramo si intitola Una donna ed è una storia visionaria prima di tutto perché fa emergere pensieri sommersi.
I primi giochi che impariamo hanno a che fare con il rincorrersi, separarsi, ritrovarsi. Mia figlia a due anni si preparava uno zainetto e faceva finta di partire: ciao, mamma, devo partire, ciao - mi mancherai – eccomi, mamma sono tornata.
Queste piccole sparizioni mi hanno sempre fatta sentire a cavallo di tempi diversi: l’infanzia della mia bambina, la mia che viene rievocata, le separazioni del futuro e il presente, una somma di tutto, la me stessa madre che osserva la sua bambina giocare.
Ogni relazione madre figlia però ha le sue caratteristiche intime e private, il processo di allontanamento e riunificazione non è sempre lineare. Ci sono relazioni che sfuggono alla nostra capacità di etichettare le storie delle altre persone. È ciò che succede leggendo Lei che mi ha liberata, tradotto da Beatrice Gnassi, edito le plurali – casa editrice femminista che seguo da tempo e che vi consiglio di esplorare. Lei che mi ha liberata, tradotto in Italia per la prima volta, è un memoir dove la scrittrice e poeta Maya Angelou si racconta attraverso il complesso rapporto con la madre Vivian Baxter.
Sei stata una madre terribile di bambini piccoli, ma non c'è mai stata nessuna migliore di te come madre di una giovane adulta
(Maya Angelou, Lei che mi ha liberata)
Il rapporto tra Maya bambina e Vivian comincia con una separazione: Vivian Baxter non può prendersi cura della sua piccola, Maya trascorrerà l'infanzia a casa della nonna.
La storia personale di queste donne si muove sullo sfondo di anni brutali: gli Stati Uniti del Ku klux klan, il proibizionismo, le lotte per i diritti civili degli afroamericani. Sono due donne fuori dagli schemi che narrano una storia universale: non possiamo ingabbiare le relazioni, per capirle davvero dobbiamo accoglierne le unicità.
Il rapporto d'amore tra Maya e Vivian inizia con il più grande tabù della nostra società: l’abbandono materno. Forse ancor più delle donne potenti, odiamo le madri che si pentono, quelle che non si rassegnano e che si scoprono inadeguate.
Mancava a me la volontà continua della vera educatrice... non potevo assorbirmi intera nella considerazione dei suoi bisogni, prevenirli, soddisfarli... che miserabile ero dunque se non riuscivo, una volta accettato il sacrificio della mia individualità, a dimenticare me stessa, a riportare integre le mie energie su quella individualità che mi si formava a lato?
(Sibilla Aleramo, Una donna)
Abbiamo bisogno di questi racconti, i nostri giorni ne sono pieni, come lo sono la storia e la letteratura, solo che li ignoriamo. Dobbiamo avere il coraggio di aprire quella porta senza distogliere lo sguardo, per parlare di maternità anche in termini di abbandono, pentimento, desiderio.
Un esercizio memoir
Il memoir mi affascina da sempre perché parla alla nostra sfera emotiva e si orienta nel tempo senza la pretesa di elencare fatti veri. Un po' come per i sogni, i ricordi si possono stimolare, più giochiamo con le nostre memorie più associazioni arrivano in nostro soccorso. E il potere del memoir secondo me sta proprio lì, non ha regole, ci fa muovere nel tempo liberamente creando legami inaspettati fra eventi delle nostre vite anche distanti tra loro. Lo stesso accade con la vita onirica, quando ci svegliamo e la materia dei nostri sogni aleggia ancora nella mente, possiamo tentare di trascriverla accogliendo le libere associazioni che ne derivano, questa pratica di ascolto e scrittura diventa ancor più interessante del sogno stesso.
«Sono nel salone della mia casa d'infanzia, è molto grande, ballo libera sul pavimento, dall'altra parte della stanza, seduta sul divano, c'è mia madre che mi guarda e sulle gambe ha un quotidiano. Smetto di ballare e mi siedo sul pavimento, apro la mia valigetta con la Pimpa, ci infilo una crema per le mani Glysolid, un astuccio pieno di matite colorate, tre musicassette e una piccola Lucy van Pelt che mi ha regalato proprio mia madre pochi mesi prima. Chiudo la valigetta. Ciao mamma, io parto. Ciao amore, dove vai? Torna presto. Ciao mamma. Esco dal salone e sono nel corridoio, sento ancora l'eco delle nostre voci. Cammino, cammino ancora con la mia valigetta in mano, non è più il corridoio della mia casa d'infanzia, è un luogo diverso che non riconosco, continuo a camminare. Arrivo davanti a una porta chiusa, voglio aprirla, sono stanca di camminare, apro la porta molto lentamente e vedo... »
Immagina anche tu di trovarti nella tua casa di infanzia e di fare il gioco delle partenze, saluta una persona amata, salutala con amore e poi vai via, cammina lungo un corridoio buio, lascia che i pensieri scorrano come il panorama che vedi attraverso il finestrino del treno, solo allora apri la tua porta. Cosa vedi? È un ambiente interno od esterno? Che temperatura c'è? Conosci questo spazio? Descrivi il luogo che hai scoperto partendo dall'ambiente e poi pensa a come ti fa sentire.
Se ti va puoi raccontarmelo rispondendo a questa mail, ti leggo volentieri.
Sono Serena Blasi, lavoro con le parole e con i ricordi. Studio e ricerco storie di figlie e di madri nella letteratura, nei film e nelle serie tv e creo percorsi di lettura per scoprire e tradurre le voci delle donne.
Una figlia per amica è una newsletter gratuita che richiede però molto lavoro, se ti va puoi offrirmi un cappuccino o ciò che più ti piace: il mio cuore ricco di citazioni ti sarà riconoscente.
Un grazie pieno di affetto ad Alice Fadda per le splendide illustrazioni.
«Stavo come una che si sta conquistando la sua esistenza, e sente una folla di cose contemporaneamente, tra cui anche una mancanza insopportabile»
(Elena Ferrante, La figlia oscura)
Il solo pensiero di mettermi a fare l’esercizio mi fa venire da piangere. Non so manco perché. Appena riuscirò a farmi coraggio indagherò facendolo. Grazie Serena per questa puntata❤️
Maya Angelou 😍 e tu ❤️