un qualcosa di lungo e tetro che avanzava e indietreggiava come la nebbia in un giorno di gennaio.
(Virginia Woolf, Diario di una scrittrice)
Mentre scrivo questa puntata sento che un attacco si sta facendo largo, un’emicrania destra (lato destro del cranio e parte oculare), così la annoterò sul diario dell’emicrania (utilizzo un’app). Scrivo lo stesso perché ho bisogno di liberarmi e se non posso disfarmi della mia guardiana (l’emicrania), posso scrivere, far chiarezza, illudermi di saperla domare. Scrivo lo stesso perché pochi giorni fa
ha pubblicato questo post e le sono molto grata. Ci troverete la sua storia ma anche tante informazioni tecnico scientifiche che io non mi sento in grado di fornire. Stefania mi ha detto: Scrivi, ogni storia è preziosa. E allora eccomi qui.La storia della mia emicrania parla della ricerca di quella stanza tutta per sé, il mio centro lo identifico così perché amo Virginia Woolf e perché nei suoi diari (e nei suoi dolori) mi sono riconosciuta.
Scrivo lo stesso ma rallento. È l’unica cosa che posso fare quando sento la mia guardiana che pian piano apre la porta. Tu scrivi, mi dice. Io intanto faccio stretching. Si prepara, ma non so con quale intensità si dedicherà a me, non so per quante ore mi sorveglierà. Non lo so mai prima.
Gli attacchi violenti durano 48-54 ore, adesso ne ho pochi resistenti ai farmaci ma quando succede non voglio crederci, mi deprimo, regredisco nel mio rapporto con il dolore. Questo è anche il motivo per cui non ho mai scritto seriamente di emicrania, mi sono chiesta se avessi il diritto di parlarne visto che tante persone vivono situazioni più gravi della mia. Forse è solo un blocco che utilizzo per svilire il mio dolore, per girarci intorno e metterlo da parte.
Qualche mese fa sono stata per la prima volta in un centro cefalee di Roma, prenotando questa visita ho infranto un patto di famiglia: le donne della mia famiglia non hanno mai intrapreso percorsi specialistici, a partire da me cambia la storia. Abbiamo utilizzato veli di tristezza e rotoli di pensiero magico per avvolgere l’emicrania: meglio non parlarne o succederà, meglio far finta di nulla.
Durante la mia prima esperienza di parto non ho avvertito i prodromi, la seconda volta sì e mi hanno fatto venire voglia di esserci e scappare allo stesso tempo. I prodromi dell’emicrania, invece, mi tolgono ogni volontà di fuga, se posso arretro e poi mi immobilizzo.
Poco prima di mettermi a scrivere ho sbadigliato tre, quattro volte, poi ho avuto fame, una fame salata. Ho finito un lavoro e sono andata in cucina: cracker e hummus di ceci, buoni, buonissimi, per un po’ dovrebbero placare la mia guardiana. Dopo aver assunto il farmaco, se ha avuto l’effetto desiderato, cosa rimane? Il dolore pulsante se ne va, non mi sento più contratta e accartocciata, rimane la debolezza, la sonnolenza, a volte l’umore depresso, la vista annebbiata, i pensieri sono falene che si scagliano sulle pareti della mia testa.
Tra poco avrò una call, non la disdico anche se potrei, anche se mettersi al computer è una scommessa. Non disdico perché desidero una vita normale, una parte di me è ancora quella ragazza che non vuole rinunciare ad uscire con le amiche il sabato sera.
Il ricordo
Mia nonna era una persona frenetica e quando un attacco la raggiungeva se ne andava in giro per casa come una sonnambula, si teneva una benda stretta sulla testa e continuava a dedicarsi alle cure domestiche finché distrutta era costretta a capitolare e a sdraiarsi sul letto di giorno (sacrilegio!). Mia madre, con il suo carattere magmatico, invece, passava intere giornate a letto con le tapparelle abbassate, io mi sedevo sulla soglia della porta con le gambe incrociate e leggevo, sorvegliavo quei suoi momenti di essere. Ero la guardiana della sua guardiana.
Per lungo tempo ho interpretato gli umori di mia madre attraverso l’insorgere delle sue emicranie, decifravo il modo in cui si massaggiava un lato della testa, la mattina mentre aspettava che il caffè si raffreddasse. Questo codice genetico è stato il primo obiettivo della mia ribellione, una chiave di ricerca identitaria: le capivo e non volevo essere come loro, volevo sottrarmi a questo destino.
Ero andata via come un’ustionata che urlando si strappa di dosso la pelle bruciata credendo di strapparsi di dosso la bruciatura stessa.
(Elena Ferrante, La figlia oscura)
Se mia nonna aveva deciso di gestire il suo dolore come una sonnambula e mia madre di tenerlo a bada nel suo corpo come un vulcano, cosa potevo fare io?
Ho continuato per molto tempo a pormi questa domanda senza cercare davvero risposte, questa domanda è la mia ustione.
Oggi so che l’emicrania fa parte dei miei momenti di essere, espressione che prendo in prestito da Virginia Woolf. Non sono la mia emicrania, ma spesso ritrovo pezzi di me nel modo in cui affronto questo dolore.
La scintilla
Ci sono una serie di connessioni tra emicrania e masking (il processo che ci spinge a camuffare elementi della nostra personalità per conformarci). Negare il dolore pur di essere presente è una pratica che ho messo in atto tante volte, ma quando il dolore ho cominciato a nominarlo le cose sono cambiate: grazie a questo gioco verbale sono diventata la prima femmina della mia famiglia ad essere in cura in un centro specializzato. Questo è il mio modo di prendermi spazio, di dire: guardatemi, ci sono.
Da qualche anno mi riconosco nell’alta sensibilità, se non sai di cosa si tratta puoi approfondire qui. Per la mia esperienza di vita, ho trovato connessioni tra questo modo di percepire gli stimoli esterni (ed interni) e l’emicrania. Sono molto sensibile alle luci, ai rumori, ai profumi, difficilmente ascolto musica a lungo, devo scappare dai supermercati e dai negozi quando alzano troppo il volume, facilmente mi viene la nausea.
Grazie per aver letto questa puntata speciale che non avrei mai scritto senza l’aiuto di Stefania Pecere e della sua newsletter Controra. Dico spesso che questo è il mio spazio di libertà, oggi mi sento un po’ più libera.
Sono Serena Blasi, lavoro con le parole e con i ricordi. Studio e ricerco storie di figlie e di madri nella letteratura, nei film e nelle serie tv e creo percorsi di lettura per scoprire e tradurre le voci delle donne.
Una figlia per amica è una newsletter gratuita che richiede però molto lavoro, se ti va puoi offrirmi un cappuccino o ciò che più ti piace: il mio cuore ricco di citazioni ti sarà riconoscente.
Un grazie pieno di affetto ad Alice Fadda per le splendide illustrazioni.
Ma come ho fatto a non capire o sentire, in tutto questo tempo, che mi stavo consumando e andavo avanti con una gomma a terra? Così era (…) da allora sono rimasta a poltrire, in quella singolare esistenza anfibia del mal di testa.
(Virginia Woolf, Diario di una scrittrice)
Una condivisione preziosa. Grazie.
Quando mia madre aveva i suoi attacchi e si sdraiava sul divano con un cuscino sugli occhi, io mi nascondevo nello spazio tra l'armadio e il termosifone, che era anche il mio rifugio per leggere e stare sola ogni volta che mi sentivo sopraffatta. Mi spaventava vederla così, lei sempre così energica e in perenne movimento, atterrata da un mostro invisibile e - ai miei occhi da bambina - incomprensibile.
Ho già scritto tutto in una nota, bravissima, ho fatto bene a dirti di scrivere ❤